lunedì 13 settembre 2010

io sono una lattina

e ti sto in pugno mio malgrado, ma davvero, quattro dita attorno alla vita e una dietro a sfondarmi da mezzo la spina, mi diceva, e gli sentivo gli occhi viscidi, pesci rossi instupiditi con il muso contro la boccia, strisciarmi a sguardo umido poi fissare in alto a destra un punto a caso nel ghigno del cielo.

sabato 4 settembre 2010

"fossimo polvere saremmo più facilmente trasportabili"

A non crederci, ancora come due mesi fa, al di là dei finestrini la nostra fetta d'adriatico blu e bianca se la mangia il treno; il vetro unto la fa sembrare una vecchia istantanea sditazzata, di quelle coi volti d'aceto degli album di mia nonna. Due anni che il mio asse esistenziale s'è spostato tutto a Nord, a intersecare
pianure d'orzata,
vie sbieche prese contromano in bici senza freni,
langhe noccioli poi fiumi di quelli famosi che l'hai studiati da bambino sui sussidiari di geografia,
città-scenografie vissute-perforate in notturna dalla prospettiva speleologica dei baretti dei gondolieri,
ma senti come parli? voglio dare alla realtà l'ordine del tuo modo di pronunciare le cose, voglio ascoltarti parlare delle tue montagne come di formule magiche, accorgermi che hai acquisito i ritmi dei miei modi di dire, sai una cosa buffa, nel mio dizionario enciclopedico interiore la parola città è collegata in sinestesia ad un piano-ricordo in cui mio padre dice ad una me di otto anni - a occhi sgranati - su una terrazza - in cima ad un palazzone - di roma - vedi, città è quando ti guardi attorno e non ti arriva l'occhio dov'è la fine

Ti sfiderei a ribaltare a tua volta il mio asse esistenziale, a farmi cambiare le lettere da digitare in automatico sulle macchinette per i biglietti in stazione, a farmi cantilenare le nuove distanze che consumerò seduta scomoda su un regionale
perché ogni chilometro è una litania, una preghiera da recitare; è in metri quadrati che da anni misuro le assenze, le pagine da metterci un segno, le pagine da girare; I don't know where else I can go, ricordo che due anni fa per me la parola chiave era cambiare, chissà quale sarà la tua ora, ed io, io che me ne farò delle domeniche sera, e se i tuoi occhi fossero fucili sarebbe anche il caso di seppellirli ormai

mercoledì 26 maggio 2010

waiting for my man. per prefabbrica, IV forse numero di Idioteca.

Erano i capei d'oro a l'aura sparsi, e le cicche sul lavandino; la luce scrostata delle sei del mattino sui panni mezz'ammuffiti ammucchiati nel secchio, lo spazzolino da denti fra le cicche e Laura allo specchio. Le braccia tese sotto l'acqua corrente, s'insaponava le mani, svelta, due macigni d'occhiaie a pesarle sugli zigomi; città intera sui tacchi s'era fatta, di corsa, a rovinarsi le caviglie. Un'idiota, restare a ballare fino a quell'ora, col turno al bar a colazione alle 7 a.m., ma Francesco, al meraviglioso Francesco non si poteva resistere; si guardava allo specchio e aveva fisso Francesco, sorriso splendido, coi riccetti da borgata, d'altri tempi, davvero d'altri tempi quel moretto col camicino radical che qualche giorno prima, al bancone, le aveva infilato un foglino col numero di cellulare sotto la tazzina di caffè che lei gl'aveva servito. Bustina di zucchero intatta, dieci punti: le era piaciuto subito, e via a non capirci più nulla e farsi salire le voglie come allergia in quel maggio maledetto, col caldo tardoprimaverile, euforico, che spesso e volentieri la soffiava leggera nell'aria come polline poi le faceva andare di traverso i soli, le lune e le galassie pure, e la sbatteva a terra in down da endorfine, smusata, senza forze.
Ma quella sera Laura biondissima era fantastica, e c'aveva messo un'infinità a vestirsitruccasi, a edificarsi, prodursi, confezionarsi con la minuzia di una catena di montaggio, hey shuga, take a walk on the wild side, dovevate vederla, uno schianto, altrochè, e aveva ballato davanti allo specchio, e aveva pensato che la gonna nuova le faceva un bel culo davvero, e aveva bevuto limoncello a collo dalla bottiglia mezzo scolata dell'altra notte, quella notte da disperarsi che era arrivato Giulio, il post-bohemièn malandato from the hills dell'entroterra, che ci aveva messo delle ore a baciarla e bimbo sei carino, ho capito che vuoi andare a vivere a Londra ma io c'ho poca pazienza, il tuo accento è agghiacciante e insomma doo do doo do doo do do doo cantava, ballava, si venerava estasiata allo specchio impolverato e che intimo ragazzi, faceva una sorsata e pensava a Giulio, che poi andarci a letto non era stato così terribile, un'altra sorsata e pensava a Francesco, bellissimo, che chissà se avrebbe rimesso il camicino radical bianco, quella sera, e alla fine se n'era uscita di casa a bottiglia finita già traballante sui tacchi, she said hey babe, sbraitava al buio chiaro e aromatico di maggio, take a walk on the wild side...
E si faceva giorno sugli asciugamani e sul posacenere rovesciato, sui trucchi, sui capei d'oro e sul viso di laura, sfinito, floscio come una ragnatela; laura trasognata ancora, che si sciacquava le mani, chiudeva il rubinetto e prendeva a struccarsi. S'annusava e si gustava Francesco, se lo sentiva ancora sul collo, sul collo e sul culo, altro che radical, altro che romantico Francesco irresistibile, e chissà a che punto della serata era stato che Pierpaolo le aveva passato una mano fra i capelli e lei si era girata, scordandosi di Francesco, e a Pierpaolo si sa, non si resiste, e neanche al suo bel vizio di riempirla di drink e complimenti; idiota che era, tornata a casa a quell'ora, manco mezz'oretta avrebbe potuto chiudere occhio, e con le caviglie dissestate poi, tacchi maledetti, sei ore filate al bancone sarebbero state un inferno, o me 'mmazzo o me sparo, pensava, come diceva suo nonno. Pensava anche, ghignando, che ai masters del bar davvero non sapeva più come spiegare per quale motivo alla volte zoppicasse, e giù a inventarsi tendiniti, vecchie fratture, e stavolta, già, stavolta sarebbe stata colpa delle scarpe da tennis nuove; e pensava anche, togliendosi la canottierina nera, che era ora, ora scossa di una aggiustatina ai peli sul petto, ma doveva spicciarsi, perciò svelta col rasoio si ripassava il mento, e le guance. La luce era ormai nitida sulla parrucca bionda gettata nel lavandino e Laura sbattutasi la porta alle spalle incespicava per le scale e rincorreva zoppicando il bus delle seiecinquanta del mattino.

mercoledì 17 febbraio 2010

gigantografie di palmi di mani

fenomenologia delle chiusure lampo. farfugliare discorsi importanti ai bottoni mentre li infili nelle asole. la mattina quando ti vesti. se le parole sfiatassero dalle dita. finalmente. darei un nome ad ognuno dei tuoi denti sai. spiegarti che esisto solo io ma questo non fa di me un egoista anzi. il potere politico lo darei agli apostrofi e alla vocali aperte. bersi il valore delle cose con quel liquore al carciofo che ha un nome strano. cara polvere che rimani sulla patente. cambiare lingua e dirti sempre cose nuove. il tuo modo strano di guardarmi arrivare. riscuotersi. rimestolarsi.

venerdì 25 dicembre 2009

testabianca

Colpo d'ala scardina le labbra, colpo d'ala e nella gola m'esplode la saliva, m'arriva alle orecchie. A friggermi le guance lo sfogo dei capillari. Ora tende le ali a lama, alto nel cielo di sabbia, ed io, io serro i pugni finché i palmi non cedono alla spinta delle unghie; è un ghigno di crampi il suo planare, di sforzi e smorfie e piume sporche in stagno muscolare. Fuggire, devo correre, calciarmi via di qui, svelto, ma le gambe sono pietra sono fatto di pietra e ormai è a picco su di me il suo sguardo affilato. Precipita di schianto, s'allarga a macchia d'olio la sua ombra al suolo. Io brillo di sudore, il battito sfrenato mi sfonda la bocca dello stomaco e no, non credo di avere argini abbastanza robusti per fermare la piena delle vene. Il dolore non esiste non esiste il male ma il panico m'imperla il collo, mi scorre in rivoli dai palmi per i polsi ed eccolo, colpo d'ala, è a un palmo da me, il becco spalancato, arriva. Incollo le palpebre, alla fine mi sfiora la testa mi straccia il respiro non mi è addosso mi giro. E' in terra, saldo con gli artigli. Davanti, qualcosa. Carne livida tutta un sussulto di piaghe bluastre e rossoscuro. Un torsolo d'uomo, le caviglie scorticate, e brividi a increspare la pelle fosca, fina fina su polpacci e cosce turgide. Le ossa del bacino vette brulle sul ventre cavo. I vuoti e i pieni del costato virano in avambracci spolpati, polsi imbrattati, e dita inzaccherate di terra. Testabianca spalanca il becco, il corpo steso della preda rattrappisce per sottrarsi, d'istinto mi sfrego la lingua sui denti e gli occhi mi si fanno lucidi di fame. Sfavillante fame. Voltarmi, svoltare, non voglio guardare, è che lo stomaco m'incalza, mi strattona, mi spintona in avanti. Colpo d'ala, Testabianca s'avventa su quegl'avanzi d'uomo in terra e io mi trovo madido e tremante a mordere feroce il cuscino sudato. Che sogno di merda, penso e ficco fronte e naso nell'incavo del gomito sinistro. Bofonchio una bestemmia impastata e scatto a pancia in sù. Son sempre stato convinto che chiunque soffra d'insonnia nel tempo s' inventi dei modi suoi per gestirla. Delle scatole interiori in cui infilare tutto quel rovistare tachicardico d'occhi nel buio, una convenzione personale per quantificare quel rigirarsi interminabile in ore di lana infeltrita. Buon per loro, io son ben lungi dal riuscirci. Me ne sto a mollo coi tictic delle lancette e il bieco luccichio delle spie luminose della radiosveglia e del vecchio stereo. A farmi scartavetrare dal nulla fino a sentirmi notte su notte.

domenica 18 ottobre 2009

per Idioteca. Rivista di indagine, creatività, visioni. Numero speciale per Animalogica, Bologna synth meeting.

FAST FORWARD

francesca, i tuoi martìri - stasera ce li scordiamo, stasera - te li strappo via coi denti - come il filtro della Pall Mall che t'accendi - con scatto di nervi - veloce - mentre io guido - raggomitolato - sul volante - gli occhi due grinze - che se no non ci vedo - che fuori è il nubifragio - sporco - fitto - un diluvio - scrosciante - di piogga luci cattivi odori - è la città - senzacontorni - che ci s'abbatte contro - e fila via - fast forward - dai finestrini - insieme al pacchetto - vuoto - che strizzi in pugno - e lanci fuori. E il tuo odore - nell'abitacolo della punto - è miele - è spugna - è una ditata sul vetro - è fosco è aguzzo - è condensa - sul parabrezza, è violenza - il temporale - e io - mi sento un po' - come quegli eroi - in endecasillabi aggrovigliati - sdruccioli - in fuga - con te - a sfidare - a schivare - mostrigrotteschi - gli autovelox - spenti - le volanti - agli angoli - gli alcool test i droga test - zeropuntozero - quasi una condizione esistenziale - e chissà perchè - mi sono lasciato convincere - da te - stasera - a calciare via il mio senno su una qualche luna sintetica - da te - e da due grammi - di metanfetamina - manco bianca - marroncina - da te - che mi chiedi - che canzone è - idioteque - radiohead. Until I burst - until i burst - tergicristalli scandiscono i guizzi di sguardi - schiocchi di code d'occhi - sguiscia la mano alla tasca - porti il cellulare al lobo destro - "per strada" - "l'uscita" - "Calcinelli?" - mi smani un colpo sul braccio - "gira qua gira, esci" - e porcodio ora me lo dici - pesto sul freno scalo in seconda gran strattonata al volante - alle spalle - i plumbei chilometri di superstrada, di fronte - il ventre nero dell'appennino - "ma poi che mettono stasera" - "tekno francese". Per me si va tra la perduta gente - "ma da qui come si arriva lo sai?" - via di corsa dalla città dolente - "fermiamoci, aspetto che mi chiamino" - accosto - ed ora è il buio a scrosciarci addosso - acquazzone impenetrabile - "e intanto che aspetti..." - ma hai già capito - ti frughi nel reggiseno - la stagnolina - la patente presa tre mesi fa - e il mio quadernino. MezzoGrammo - Francesca, i tuoi martìri - ti scavano le guance - antichi versi - le vene dei tuoi polsi - AltroMezzo - ma quant'è che non dormi - quant'è che non mangi - e non è che voglia fare - il Battisti di turno - il sentimentale - "ancora non ti chiamano? voglio vedere come cazzo ci arriviamo..." - strizzo gli occhi - dorso della mano alle narici - e noi fottuti naufraghi - incagliati - al bordo di una provinciale qualsiasi - nel buco del culo - d'un sabato - impossibile - TerzoMezzo - sfoglio le pagine - d'occhiaie e rimmel - sotto agl'occhi - tuoi acquei - e la pioggia - nera noia - quel che resta - esistenza - in fast forward - come vorrei - io e te - in eterno - soffiati via - dalla tempesta - un eterno - congelare - QuartoMezzo - il respiro - s'inspessisce - mi colpisce - alle tempie - e caddi come corpo morto cade.

giovedì 30 luglio 2009

"è la vita, è che siamo stelle, è che siamo miseri"

La pianura è un intervento a cielo aperto, e il regionale che mi riporta a casa è un bisturi impassibile che le squarcia il petto. E lei, sotto i ferri dei binari arroventati, tace al dolore; imperterrita cinge i fianchi e alita sul collo a chi la vive, ogni giorno. Ma io torno. I miei occhiali da sole s'ingoiano i chilometri che s'accumulano tra me e te. E il tuo odore viaggia con me, intride le tendine, la stoffa blu dei sediliscomodi. E' una ditata sui finestrini.
E' che se non smetto di ripensarci mi distruggerò le labbra.

Ti chiederei di appendermi al soffitto, o di stendermi a pennellate sul muro, perchè, non vedi? sto perdendo consistenza. Svaporo. Mi vedo scorrerti in rivoli giù dalla schiena, imperlarti le tempie di parole. Io sono sguardo, e nient'altro. Tutto il resto è sudore. Crampi allo stomaco e vene in piena, e stupore.

Finirò col devastarmi le labbra.

Mi manca il tuo spazzolino da denti, il succo d'ananas che non giro mai, tormentarti i capelli, il rumore delle ossa, l'alba dalla finestra di camera tua

scavarti mappe sulle guance e poi dirti

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